giovedì 1 novembre 2018

Torta di mele

Un classico intramontabile dell'inverno, la torta di mele. Ognuno spergiura di avere la ricetta segreta, quella più soffice, quella più leggera, quella più gustosa, quella più. Se si fa una ricerca non ne esiste una uguale all'altra. Ognuno ha la sua. E questa devo ammettere è una delle migliori che ho provato e lo dico subito: non è dietetica. Tanto burro, insomma. Per questo sarà bona?


 
Ingredienti:
200 gr di farina
200 gr di zucchero
200 gr di burro
200 gr di latte
650 gr di mele pulite
1 limone
lievito
cannella
zucchero di canna
 
Pulire le mele e tagliarle a tocchetti tranne una che va tagliata a spicchi sottili. Cospargere con due cucchiai di zucchero (da prendere nei 200 della ricetta), succo del limone e cannella a piacere. Lasciare da parte. 
Intanto mescolare lo zucchero con le uova intere, aggiungere la scorza del limone e unire il burro ammorbidito. Aggiungere poi metà della farina, mescolare e versare il latte a filo. Terminare con la restante farina e il lievito. Aggiungere al composto le mele a tocchetti scolate del liquido che non va buttato assolutamente. Imburrare e infarinare uno stampo a cerniera, versare il composto e terminare con le fettine di mela anche queste scolate del liquido. Aggiungere quest'ultimo, ma non tutto, sulla superficie della torta e terminare con lo zucchero di canna.

Cuocere in forno (qui c'è chi lo preriscalda, chi non lo fa - io non l'ho fatto) a 170 per la prima mezz'ora poi a 180 per l'ultima mezzora di cottura. Dopo circa 40 minuti coprire la superficie con un foglio di alluminio fino a cottura. 

E' un dolce molto umido, va cotto bene. Ci vuole circa un'ora, per questo non alzare la temperatura subito a 180 o si rischia di cuocerlo velocemente fuori e lasciarlo poco cotto all'interno.
Far raffreddare in forno spento e cospargere infine di zucchero a velo.

Tenere lontano dalla portata di chi non sa gestire la vista dei dolci, crea dipendenza.


martedì 26 aprile 2016

Plumcake alla frutta - due varianti


 
Ho già detto che i brasiliani amano lo zucchero? Ne sono praticamente tossici.
I loro dolci da lontano ricordano i nostri, sembrano torte di compleanno. Da vicino somigliano più a casette di zucchero in cui diete, carie e sensi di colpa si annullano in un unico morso. Eppure non si vedono obesi in giro, anzi, la salute pubblica è un fattore importante nella società brasiliense.
C'è quasi da vergognarsi a vedere certe signore sulla settantina fare la spaccata sugli attrezzi gratuiti sparsi in tutta la città. La forma fisica è tenuta in altissima considerazione, sarà per questo che poi si concedono zuccheri a volontà. Ma il diabete? Dove lo mettono? Probabilmente la dieta alimentare che seguono - che per carità, è principalmente proteica - consente all'organismo di disintoccarsi mantenendo gli zuccheri sotto controllo. E come? Ma mangiando tonnellate di Açai ovviamente!
 
L'Açai è un frutto dell'Amazzonia dalle molteplici proprietà e i brasiliani ne sono ghiotti.
Le bacche somigliano a quelle dei mirtilli e anche il sapore ricorda vagamente i frutti rossi. Vengono schiacciate e lavorate fino ad ottenere una crema tipo gelato arricchita con sciroppo di Guaranà e banana.
Poi ci si può sbizzarrire a volontà con guarnizioni di granola, frutta secca, latte in polvere, banana in pezzi, calda de chocolate e persino di Paçoquita, che fatico a definire dolce in quanto è fatta con la nocciolina americana salata (crea dipendenza, garantisco).
 
Oltre all'Açai i brasiliani mangiano - anzi bevono - tantissima frutta. Qualcuno si ricorda quel gioco che si faceva da bambini in cui si doveva indovinare il frutto? Quando si diceva kiwi era già considerato esotico (e mo indovina kiwi se ce riesci!), qui la varietà è talmente ampia che indovinare diventerebbe una vera sfida; io già fatico a distinguere i nomi sui cardapios e sto sempre a dire "ma questo l'avevo già preso?". Si trova anche il succo di cacao che è ricavato dalla fava, è bianco e molto delicato e non ricorda neanche lontanamente il cioccolato.
C'è poi l'acqua di cocco, che è venduta per la strada ed è estratta sul momento dal frutto verde. E' dolcissima e non sa di cocco, ma dopo una lunga camminata è incredibilmente rinfrescante e piacevole, oltre ad essere un toccasana.
La cosa bella è che, a seconda delle stagioni, basta allungare la mano e cogliere i frutti. Gli alberi sono sparsi in tutta la città e non è raro vedere i brasiliani andarsene in giro con dei lunghi bastoni per far cadere i frutti dai rami più alti. A volte dalle finestre arriva un suono di fronde seguito da un plof: qui di fame non si muore di certo, magari si muore di altre cose ma di fame no.
 
Con tutta questa frutta mi sono messa a cucinare dolci. Vi propongo due varianti, una più classica e l'altra più esotica. Vi consiglio quella esotica se riuscite a trovare dei frutti di buona qualità.
 
 
 Plumcake di maracujà
con mango
 
300 gr di farina
100 gr di burro
150 gr di zucchero
2 uova
succo di maracujà (frutto della passione)
1 mango
lievito
 
 
Mescolare il burro ammorbidito con lo zucchero, aggiungere un uovo alla volta e sbattere fino ad avere un impasto cremoso. Aggiungere il succo di maracujà. Apro una piccola parentesi: la maracujà è conosciuta in Italia come il frutto della passione; dal momento che è praticamente impossibile separare la polpa dai semi, bisogna spremerla fino a ricavarne il succo.
Aggiungere la farina setacciata e infine il mango a piccoli pezzi leggermente infarinati, affinché non si distribuiscano tutti sul fondo. Unire il lievito e mescolare con cura dall'alto verso il basso. Infornare e cuocere secondo usi e costumi dei vostri forni, Oh voi fortunati che possedete un forno elettrico (il mio è a gas non ventilato e mi sta creando notevoli problemi). Usare ovviamente uno stampo da plumcake e far raffreddare completamente prima di togliere dallo stampo e affettare.
 
La variante banane e fragole è praticamente identica, solo che al posto del succo di maracujà bisogna aggiungere tre banane schiacciate (ridotte a purè) e al posto del mango le fragole (q.b. a seconda dei gusti e sempre leggermente infarinate). In questo caso io ho aggiunto anche un po' di latte per rendere l'impasto meno compatto e fare in modo che rimanesse umido.
 
Da provare entrambi, buonissimi per colazione ma attenzione perché finiscono in 15 minuti!!
 

mercoledì 13 aprile 2016

Salmone gratinato con cipolla e zenzero

Vivo in Brasile da tre mesi ormai. L'impatto con la cucina è stato meno felice di quanto mi aspettassi. Mi ero preparata a grandi e intensi sapori ma l'unica cosa veramente intensa che si riesce a percepire ovunque e a qualsiasi ora del giorno è l'aglio. E ovviamente l'odore di carne che sfrigola sulle braci improvvisate per la strada.
 
Abito a Brasilia che è un po' meno Sud America di tutto il resto del Sud America. Brasilia è la città più ricca del Paese, abitata prevalentemente da funzionari amministrativi che guadagnano un fracco di soldi. Ovviamente amano anche spenderli. E come li spendono? Tra le altre cose, in cibo. Il gusto europeo è molto copiato da queste parti e tutto ciò che abbia un vago aspetto e sapore francese o italiano è gettonatissimo. Pizza come se piovesse, per dirne una. Baguette e croissant sono il top della raffinatezza, al punto che il miglior panificio si chiama La Petite Boulangerie. Che poi le pizze siano ricoperte da uno strato di origano - che metteno anche sulla salsiccia, giuro - e che il pane non sia mai croccante o profumato, sono dettagli.
 
L'origano li fa impazzire, lo usano praticamente ovunque come se il gusto italiano fosse racchiuso tutto in questa erba mediterranea. Basta leggere sul cardapio (il menù) la parola "italiano" e potete star certi che c'è l'origano di mezzo.
 
Se dovessi descrivere la cucina brasiliense (non brasiliana, attenzione) in una parola, direi senza ombra di dubbio che è delicata. E' la tipica risposta che mi viene in mente quando mi chiedono ma allora sei stata in quel posto? E com'era il cibo? Delicato. Si, delicatissimo. A parte quando c'è l'origano di mezzo e l'immancabile aglio fritto.
 
La chicca di questa cucina e dei gusti brasiliensi è il pão de queijo, ovvero il panino al formaggio. Dico che è una chicca perché il formaggio a Brasilia non esiste. Ok, ho usato una formula esageratamente tragica lo confesso. Il formaggio esiste ma non è formaggio, è qualcosa che somiglia al formaggio, che lo ricorda, lo imita, ma che non ha nulla a che fare con l'unico e originale cacio che noi italiani conosciamo. Prima di tutto, qui non esiste lo stagionato. Tutti i formaggi tipo qualcosa (tipo parmesano, provolone, pecorino, ecc...) sono morbidi. Il parmigiano poi è unico. Ha l'aspetto di una caciottina dolce e odora lontanamente di parmigiano reggiano. Il pecorino ha lo stesso aspetto e odore del parmigiano con la differenza che sulla confezione c'è scritto pecorino.
 
Un'altra peculiarità della cucina brasiliense è lo zucchero che è venduto in pacchi da 5 kg.
I brasiliensi prendono i dolci sul serio, nel senso che il dolce è l'unica cosa che si percepisce. Non ci sono altri sapori. I boli hanno l'aspetto dei nostri ciambelloni ma non sanno praticamente di nulla tranne che di dulce de lete che usano come copertura o farcitura. Praticamente è come masticare in continuazione una caramella Mou.
 
Ma ci sarà qualcosa di buono in questa cucina? Fin'ora ne ho parlato soltanto in maniera negativa. Non so perché ma è più facile trovare i difetti che i pregi di qualcosa, soprattutto quando ci si trova in un paese straniero. Be', lo so perché. Dipende dal fatto che la nostalgia di casa e di tante cose che si sono lasciate indietro a volte è talmente insopportabile che si comincia a odiare tutto: il queijo che non sa di queijo, l'origano, l'aglio fritto e persino il cioccolato che qui ovviamente è al latte. Odiare è una parola forte. Diciamo che si prendono delle distanze di sicurezza.
 
Prometto che mi sforzerò di parlare - dal prossimo post - dei pregi di questa cucina. Una sorta di terapia del buonumore che non fa mai male. Intanto mi arrangio come posso nella cucina di casa, ieri sera ho preparato dei filetti di salmone al forno gratinati con cipolla e zenzero ed erano veramente buoni. La ricetta è facilissima ed è una variante appetitosa.
 
Alla prossima!
 
 
 
 
Ingredienti
 
2 filetti di salmone
1/2 cipolla
zenzero fresco
basilico
pangrattato
olio
sale
 

Portare a ebollizione una pentola d'acqua e immergervi i filetti per un paio di minuti. Intanto tritare finemente la cipolla e il basilcio, unire lo zenzero, il pangrattato, l'olio e mescolare fino ad ottenere una pappetta manipolabile con le mani. Scolare i filetti, salarli e ricoprirli con l'impasto ottenuto. Adagiare in una teglia e aggiungere un filo d'olio. Cuocere in forno per circa 15 minuti, facendo gratinare la parte alta. Sfornare e mangiare caldo o tiepido. 

domenica 15 febbraio 2015

Cappelletti di magro in brodo

Quest'anno a Natale abbiamo finalmente preparato i cappelletti. Dico finalmente perché da un paio di natali girava la leggenda che un giorno avremmo preparato un tradizionale pranzo natalizio, che nella mia fantasia includeva anche meeting di tre generazioni con le mani in pasta tra una chiacchiera e l'altra.
Vivo di queste fantasie, ogni tanto.
Questa premessa per introdurre il piatto di oggi che nasce dall'abilità di quel pomeriggio di dicembre in cui io e mia madre abbiamo realizzato qualcosa tipo 120 tortellini (o cappelletti, ancora non ho ben chiare le differenze) aiutate da mio padre che si occupava di stendere la pasta con la mitica Imperia. Il Natale di quest'anno è in fondo racchiuso in pochi pomeriggi trascorsi a cucinare, decorare, creare alberi di stoffa e canticchiare sulle note di vecchi cd. Poi la malattia di Milla, il suo repentino crollo fisico, la sua calma rassegnazione nel sopportare flebo e pasticche ingurgitate a forza, sono state come un nodo che mi ha traghettata lungo tutte le feste e ha chiuso l'anno senza di lei. So cosa vuol dire perdere un cane, ma credo non ci si abitui mai abbastanza a quel vuoto improvviso, a quel cuscino inutilizzato nell'angolo della stanza, a quella dimensione dello spazio che senza sapere come è cambiata. Nel mio caso è stato anche un vuoto colmo di tante contraddizioni, in cui sono stata male come non mi era mai successo. Per diversi giorni ho continuato a chiedermi se lei sapesse. Se dietro i suoi sguardi acquosi, colmi di un'incondizionata fiducia, avesse capito quel che io stavo iniziando a capire solo in quel momento. Non lo so, ma lo spero.

 I cappelletti di oggi sono la variante di quelli preparati a natale con manzo, maiale e affettati. Farli "di magro", ovvero poveri come vorrebbe un antico modo di dire ormai superato nelle nostre cucine, è sicuramente un'alternativa veloce che non perde nulla in prelibatezza.
Che poi, detto tra noi, di magro c’è ben poco: burro, formaggio e uova non sono certo messi lì pensando alla linea. L'aggiunta della scorza di limone è una nota aromatica che può sorprendervi se come me amate il  gusto pungente degli agrumi. L'ho rubata al blog Vaniglia e ormai l'ho fatta mia. 


Ingredienti
per il brodo
manzo/pollo/ossa
sedano
carota
cipolla
chiodi di garofano
alloro

per i cappelletti
4 uova
300 gr di farina
scorza di 1 limone
pepe o noce moscata
25 gr di burro fuso
200 gr di parmigiano
sale

Con queste dosi ho realizzato circa 90 cappelletti - con un break di una giornata in cui ho conservato l'impasto e il ripieno in frigorifero. Per una cena o un pranzo per quattro persone è una dose abbondante, considerando anche una seconda portata.
I cappelletti si possono preparare in anticipo e congelarli, così come il brodo conviene farlo il giorno prima e lasciare le carni a raffreddarsi per tutta la notte. Nel mio caso ho preparato il brodo in anticipo ma i cappelletti li ho fatti sul momento, un lungo momento che è stato bello concedermi. E' un lavoro da fare senza fretta: pochi e semplici gesti della mano, la ripetitività dei movimenti, il ritmo cadenzato del tempo. La terapia del buonumore. 

Per il brodo ognuno ha la sua ricetta speciale, quella della mamma o della nonna o del vecchio libro di cucina. La mia è quella del macellaio sotto casa. Tre etti di bollito, testa e zampe di un pollo ruspante e un osso. Sarebbe ancora più buono con della gallina. Le carni vanno messe a freddo se si vuole un brodo succoso e saporito oppure a caldo se si è orientanti a cucinare la carne. Ovvero per un ottimo bollito la carne deve essere immersa in acqua bollente in modo che il calore sigilli la parte esterna e tutti i succhi rimangano all'interno. Quindi ho immerso tutte le carni a freddo con gli odori: sedano, carota, cipolla, chiodo di garofano e alloro. Personalmente non salo mai il brodo, lo faccio sempre nel momento in cui lo utilizzo. A fine cottura - circa un'ora - lasciare le carni e gli odori a raffreddarsi per una notte. Il giorno seguente eliminarli insieme alla patina di grasso che nel frattempo si sarà solidificata in superficie. Vi consiglio però di non levarla tutta, una volta che il brodo sarà nuovamente caldo si scioglierà e darà tutto il sapore alla vostra minestra. 

Per l'impasto dei cappelletti disporre a fontana 300 gr di farina e romperci dentro 3 uova. Salare e iniziare ad amalgamare, lavorando bene l'impasto. Conservare sotto un panno umido, è importante che la pasta rimanga fresca in modo che sia possibile lavorarla. Per il ripieno amalgamare in un recipiente 1 uovo, il parmigiano, la scorza grattugiata di 1 limone e il burro fuso. Aggiungere del pepe o della noce moscata e salare. Il risultato che si ottiene è un impasto molto consistente che si potrà facilmente lavorare con le mani. 
A questo punto stendere la pasta una sfoglia per volta. Ci vuole del tempo per realizzare i singoli cappelletti ed è importante - divento ripetitiva - che la pasta non si secchi o sarà difficile sigillarla. Se ciò si verifica, basta comunque inumidire leggermente i bordi dei quadratini affinché si appiccichino nuovamente tra loro.   

Una volta ottenuta la sfoglia, dividerla in quadrati. Al centro di ogni quadrato porre una pallina di ripieno, chiudere il quadrato a triangolo e unire i due angoli della base ottenendo così un cappelletto. E più facile a dirsi che a farsi e ci si prende subito la mano. Disporre i cappelletti su un piano infarinato in attesa di cuocerli nel brodo, ricordandovi di salarlo.

Con l'occasione ho finalmente utilizzato la zuppiera acquistata su una bancarella di vecchi oggetti per la cucina. Un piccolo gioiello cui la fotografia non rende giustizia, poiché erano tutti ansioni ed affamati e non mi hanno lasciato il tempo di mettere in posa il mio capolavoro.
Anche questo, come da tradizione.



mercoledì 4 febbraio 2015

Involtini di verza con patate, gorgonzola e ciauscolo



È trascorso un po' di tempo dall'ultima volta che ho aperto questa pagina. Un lungo, lunghissimo anno. 
Mi sono accorta che iniziavo a sentire la mancanza di uno spazio condiviso con persone che potrei definire familiari, se può essere familiare qualcuno che non si è mai conosciuto.
Si, credo che possa. 

Ieri sera mentre preparavo questi involtini improvvisati, ho avuto l'ispirazione di pubblicare la ricetta. Senza pretese o promesse di continuità, ma solo con l'intenzione genuina e sincera di esserci di nuovo.
Spero che da qualche parte, qualcuno, la legga.

Ingredienti per due persone mediamente affamate:

8 foglie di verza riccia chiara
5-6 patate medie
gorgonzola
ciauscolo
sale
burro
olio
brodo vegetale

Non fatevi ingannare dalla foto, il risultato finale non ha l'aspetto di qualcosa di lesso e insapore. Dopo aver infatti lessato e composto gli ingredienti così come li vedete, li ho ripassati in padella fininendo la cottura con del brodo vegetale. Si sono quindi arrostiti e caricati di quel sapore in più che solo l'olio soffritto sa dare senza risparmiarsi.

Per prima cosa ho selezionato le foglie più belle facendo attenzione a non danneggiarle. In una pentola ho poi lessato le patate sbucciate e nell'acqua del bollore ho immerso un po' per volta le foglie lavate. Bastano pochi minuti, il tempo di ammorbidirle senza cuocerle. Nella stessa acqua, già che c'ero, ho aggiunto sedano, carota, cipolla e zenzero in modo da avere del brodo vegetale pronto da congelare, nonchè da utilizzare sul momento. In fondo la cosa bella di una pentola d'acqua che bolle, è la possibilità di poterci infilare di tutto e trasformarla così in qualcosa di sempre diverso e soprattutto di utile. Basta poco, no? Meno sprechi e più riciclo, sembra una banalità ma non mi stancherò mai di ripeterla.

Una volta cotte le patate le ho schiacciate e ridotte in purea. Ho aggiunto sale, una noce di burro ma niente uovo. Mi sono detta - proviamo a tenerci leggeri. E quindi ho aggiunto il ciauscolo. 
Ma che potevo farci? Era lì nel frigo, sottovuoto da natale. Un ciauscolo di ottima qualità che aspettava la sua occasione. L'ha avuta, ve lo posso assicurare. 
Con le mani ho formato otto supplì, li ho aperti nel mezzo e ho aggiunto un generoso quadretto di gorgonzola. Ho richiuso e foderato con una fetta sottile di ciascuolo. Il tutto l'ho arrotolato all'interno delle foglie a cui avevo eliminato la parte più coriacea del gambo. Fissati infine con uno stecchino e messi in padella a rosolare. Giusto qualche cucchiata di brodo per allungare la cottura e sono pronti. Se non amate i riepieni troppo morbidi basta aggiungere un uovo al composto per renderlo più solido. A me sono piaciuti anche così, morbidi e gorgonzolosi. Decisamente una gran fine per il ciauscolo. 

giovedì 20 giugno 2013

Di letture e risotti

Difficilmente abbandono un libro, sebbene sia uno dei diritti enumerati da Pennac. Più che un diritto lo reputo un ottimo consiglio, perché la lettura dovrebbe essere sempre un piacere, per cui trasformare un momento di piacevolezza con il tedio e l’insoddisfazione è piuttosto da masochisti. Devo dedurne di essere una lettrice masochista, perché anche se a volte mi accade di venire meno a quello che reputo un “impegno” con lo scrittore – quello di dedicargli tempo e attenzione – la maggior parte delle volte arrivo tenacemente alla fine, esausta. Non so se lo faccio per riservarmi il diritto di criticarlo fino in fondo oppure perché non voglio precludermi nulla, aggrappata fino all’ultimo alla speranza. Quella di non aver sprecato il mio tempo, probabilmente. O forse c’è una spiegazione più semplice: l’intenzione di dedicarmi a detestare qualcosa.

In questo periodo mi sto dedicando a detestare l’Allende, per esempio. Avevo abbandonato i suoi libri subito dopo aver letto l'autobiografia, abbastanza deludente. Della scrittrice cilena ho però un ottimo ricordo della trilogia degli "spiriti", la saga famigliare che attraversa oceani ed epoche per culminare con la dittatura e una nuova generazione di donne pronte a lottare. Le figure femminili sono infatti centrali nelle opere della Allende ed è il motivo principale per cui mi sono lasciata convincere dal romanzo Eva Luna, acquistato di recente su una bancarella. Purtroppo il personaggio, che la quarta di copertina descrive come ribelle e fuori dalle righe, è un soggetto di scarsa profondità e il romanzo stesso è una sequela di fatti che sembrano volersi scollare dalle dure implicazioni del reale, assecondando un'opportunistica neutralità della scrittrice. Non dimentichiamo infatti chi è l'Allende e cosa rappresenta per il Cile. Con un nome così importante mi sarei aspettata uno spessore diverso e soprattutto una riflessione sul contesto storico e sociale, dal momento che il romanzo è ambientato durante la dittatura. La sua piccola eroina è invece una creatura leggera e tale leggerezza viene estesa al mondo che la circonda, trasformando tutto in un'opera di sconcertante vacuità. Tante, molte parole scritte per dire poco o nulla. Oltretutto la posizione della scrittrice rispetto agli avvenimenti successivi la dittatura mi hanno lasciata abbastanza perplessa; semba che la Allende non abbia voluto sbilanciarsi e che quando lo abbia fatto sia stata invece velatamente critica nei confronti dell'opposizione nata a contrastare il governo successivo a Pinochet. Un'opposizione ancora fortemente viva nel Cile attuale.

D'altra parte la cara Isabel vive e prolifca nello stesso paese che ha sostenuto la dittatura nella sua terra e che ha voluto e provocato la morte di Salvador Allende. Perché mi ricorda qualcuno?
 
Insomma, la coerenza è una merce rara. Ce lo ricorda Ken Loach con questo corto realizzato dopo l'attacco alle torri gemelle e raccolto nel film 11.09.11.


 

Risotto con totani e zucchine

Invece dei soliti gamberetti (o gamberoni per gli intenditori) perché non provare i totani? Ho acquistato dal mio pescivendolo quattro totani piccoli e ne sono rimasta talmente soddisfatta che difficilemente tornerò al gamberetto nella felice accoppiata con la zucchina. Lo consiglio, è un primo semplice e dal deciso sapore di mare, che a me fa tanto sentire in vacanza.

Ingredienti per due persone:
 200 gr di riso (io thai)
4 totani piccoli e teneri
1 cipolletta fresca
2/3 zucchine
brodo vegetale
vino bianco
burro q.b.
sale
olio


Tritare la cipolla e farla soffriggere in poco olio. A parte tagliare le zucchine a quadretti e tenerle da parte. Mettere nel tegame i totani tagliati a rondelle con i loro tentacoli e far cuocere a recipiente coperto fino a quando avranno rilasciato il loro liquido. In questa fase non aggiungere né vino né brodo. Successivamente sfumare con un po' di vino e lasciar andare per qualche altro minuto. Aggiungere le zucchine e mescolare. A piacere unire il prezzemolo o l'erba cipollina, io ho dimenticato questo passaggio, purtroppo. Entrambe le erbe andrebbero aggiunte alla fine affinché mantengano sapore e sostanze, ma in genere lo faccio sia prima che dopo perché mi piace l'idea che l'erba si mescoli con ciò che sto cucinando.

A parte sciacquare il riso per almeno tre volte sotto l'acqua corrente e unirlo al condimento. Mescolare, aggiungere un po' di brodo e continuare a mantecare integrando liquido fino a cottura. Alla fine unire un pezzetto di burro per rendere il piatto cremoso, senza però appesantirlo troppo. Decisamente da rifare!

venerdì 7 giugno 2013

Non ci vuole niente a distruggere la bellezza

Non mi piacciono: gli alberi tagliati od estirpati come se fossero cose inanimate; i cani chiusi dentro i recinti; i bambini tirati per un braccio. I cibi precotti, i fiori finti, i vasi pieni di erbacce. I mariti, compagni, gli uomini che non sanno accogliere una donna; le persone che non sorridono mai e non si affacciano a guardare il mondo, non viaggiano, non leggono, non regalano una pianta o non si sporcano le mani per creare qualcosa di bello. Non mi piace sentirmi dire "è tardi" "è inutile" "è una perdita di tempo". Non mi piace mangiare con chi lo fa in silenzio, con chi separa i cibi nel piatto, con chi non è curioso di sapere cosa si porta alla bocca. Non mi piace chi critica il prossimo e non si sforza di cambiare se stesso.

Avevo voglia di dirlo, dopo mesi di silenzio, perché a volte è giusto rispondere al bisogno di usare la negazione per affermare qualcosa di bello. Alla faccia di chi con il brutto ci convive senza avvertirne neanche il prurito. Per me quel prurito è come una bussola che mi permettere di non perdere una briciola di bellezza, cercando di comprenderne il valore nella sua fragilità. In quel bellissimo film di Marco Tullio Giordana, I cento passi, Peppino Impastato comprende qualcosa di semplice eppure di rivoluzionario: bisognerebbe ricordare alla gente cos'è la bellezza, aiutarla a riconoscela, a difenderla. (...) La bellezza, è importante la bellezza, da quella scende giù tutto il resto.
Difendere questo valore gli è costato la vita.

Il rischio, all'opposto, è quello di abituarsi alla bruttezza, all'arroganza. All'ingiustizia. Come quella subita da Stefano Cucchi, pestato a morte; un'ingiustizia che continua a rinnovarsi e a sollevare lo sdegno di tutti coloro che non possono e non vogliono accettarla.



Zuppa di pesce
Ingredienti per due persone:

1 moscardino
2 calamari
scampi
cernia
spinarolo
vongole veraci
passata di pomodoro
erba cipollina
aglio
vino bianco
peperoncino
sale

Ci sono molti modi di preparare una zuppa di pesce ma alla base c'è sempre quel brodo saporito, risultato di una cottura in cui nulla viene scartato ma piuttosto aggiunto. Le varianti e i sapori cambiano a seconda della tipologia di pesce che si decide di utilizzare: nel mio caso tutto pesce senza spine, ma ogni pescivendolo che si rispetti vi consiglierà quello spinoso dalle carni più prelibate. A dare sapore al mio piatto è accorso in aiuto il moscardino, gli scampi e delle ottime vongole veraci. Le combinazioni sono però molteplici e personali, come l'uso delle erbe e delle spezie da utilizzare.

Nel cucinare questa zuppa non ho potuto fare a meno di pensare ad alcune ricette brasiliane di Bahia, influenzata senz'altro dalle mie letture sudamericane e dal programma di Michael Palin, che ogni tanto Rai5 replica e che io continuo a guardare senza sosta.


Il pesce non richiede una cottura molto prolungata, ma bisogna stare molto attenti alle diverse "consistenze". Se non siete pratici come me, fatevelo pulire da chi di fiducia e soprattutto fatevi consigliare, non c'è niente di più bello che indugiare intorno al banco del pesce, fare quattro chiacchiere, coinvolgere le signore vicine e  farsi ammaliare dal un prestante pescivendolo.




In una pentola capiente soffriggere uno spicchio d'aglio e un peperoncino intero per qualche minuto. Aggiungere il moscardino diviso a metà e lasciarlo cuocere nel suo liquido fino ad ambratura, senza aggiungere altro. Coprire con il coperchio e lasciar andare per un po'.
Intanto tagliare l'erba cipollina (o il prezzemolo se preferite) e aggiungerla al polipetto. Quando quest'ultimo avrà rilasciato gran parte del suo liquido, integrare la passata di pomodoro regolandovi a vostro gusto a seconda di quanto la preferite sugosa. Salare con parsimonia e cuocere per una quindicina di minuti, aggiungendo mezzo bicchiere di vino bianco. Al termine (non sarà cotto, anzi, non dovrà essere cotto!) aggiungere i calamari in pezzi e lasciar cuocere per altri quindici minuti. Nel frattempo in una padella far aprire le vongole con uno spicchio d'aglio e del vino bianco. Una volta aperte, scolarle con un mestolo forato e filrtrare il liquido rimasto in padella, che andrà aggiunto al brodo della zuppa. 

Trascorso il tempo necessario, unire al brodo i bocconcini di pesce (nel mio caso cernia e spinarolo) e solo all'ultimo gli scampi e le vongole già cotte. La zuppa è pronta da portare in tavola e con due fette di pane bruscato siete in paradiso.


venerdì 1 marzo 2013

Crostatine alla prugna per restare in tema

Vorrei poter dire "ci sono poche cose che non mi vanno giù" ma non è così purtroppo.
Una di queste è trovarmi di fronte a un'insegnante stanca, arrabbiata, disamorata e piena di piccole grandi frustrazioni. So che la scuola non è più quella di una volta (per fortuna) e neanche quella che una volta si desiderava che fosse un giorno (purtroppo). Ovvero sono cadute tante barriere, si sono accorciate tante distanze ma forse proprio per questo è ancora più difficile, oggi, essere un insegnante.

E' solo un'ipotesi s'intende, da una che al massimo ha dato ripetizioni pomeridiane. Ma che è stata sui banchi di scuola, si, come tutti nell'età scolare, ma che continua a tornarci anche ora, a trentun'anni. Mi piace, studiare. Forse più di prima. E più di prima ho la capacità di comprendere chi ho davanti. Sarà per questo che sentire dalla bocca di una professoressa che "i ragazzi difficili sono merda" mi fa un po' incazzare. E' quel tipo di rabbia che nasce forse dal non aver mai avuto a che fare con situazioni del genere (tipo: "parli bene tu che non sai cosa vuol dire!") ma che comunque sale, sale e rimane senza una spiegazione. 

Scuola, lezione d'inglese per adulti vaccinati. La bidella rincorre un alunno delle medie pomeridiane, un ragazzo che ha alzato le mani, che non sente padroni e che non ha padre. Cresciuto in fretta a suon di violenza e spaccio. C'è anche questo nelle nostre scuole. E l'insegnante non può alzare la voce. Non può sospendere. Non può bocciare. Da qui l'etichetta di "merde", di gente a cui andrebbero cambiati i connotati. Già, tanto ci sono abituati. Passare da un padre assente o violento a un avvocato, a un insegnante stanco, a un carcere minorile...il passo è breve e segnato. Trasmettiamo pure a queste merde che nella vita prenderanno solo calci in culo perché sono nati merda e merda resteranno. Tramettiamogli che se non stanno seduti composti al loro banco avranno solo porte chiuse in faccia e nessuna comprensione. Si dice "so ragazzi" e lo sono davvero. Ragazzi di vita, direbbe Pasolini. Di una vita violenta. Nessuno vuole averci a che fare. 

Posso capire che assumersi il ruolo di assistente sociale è un impegno oneroso e pieno di coraggio. Ma io non accetto che un professore o una insegnante diano della merda ad adolescenti che a modo loro si difendono dalla vita attaccando. Non sono una piscologa e non scrivo romanzi, per cui non voglio teorizzare e tanto meno commuovere o impetosire. So che c'è una realtà, nelle nostre scuole, nelle stesse scuole che a volte cadono a pezzi e la cui unica pennellata di colore è data dalle porte dei bagni piene di frasi d'amore, insulti, citazioni di ragazzi che nelle ore di scuola, oltre a studiare, scarabocchiano vita.
Si potrebbe passare delle ore a leggerle.
Ebbene, c'è una realtà che non basta prenderla a calci, spostarla più in là. Non basta lamentarsi che il governo non finanzia l'istruzione e per questo i professori sono sempre più stanchi. L'insegnante per me è come un infermiere: un uomo di vocazione. E allora se il governo non ti paga o ti fa allungare le ore per arrivare a uno stipendio decente; se ti fa sudare la giornata, combattere con classi difficili in aule grigie e spente, ebbene, prenditela con il governo. Perché per me l'unica vera merda è l'insegnante che non insegna, è l'insegnante che non impara. E' l'insegnante che non tollera. E che di fronte a un'aula di persone adulte ha il coraggio di dare della merda alla giovinezza. E' come insultare la terra in cui non cresce erba ma che nel sottosuolo contiene una ricchezza. 

Ma si, oggi la crostata alla prugna ci sta tutta.


Ingredienti per circa 7 crostatine

300 gr. di farina
150 gr. di zucchero
150 gr. di burro
3 tuorli
scorza di 1 limone
marmellata di prugne rigorosamente della nonna

La crostata è come il ciambellone, ovvero un classico che ognuno fa a modo suo. E visto che a me piace riproporre il classico (jurassica inside), lasciatemi apparecchiare la tavola come una vecchia zia e servirvi una tazza di tè. Tanto più che la bellissima tisaniera in porcellana che vedete nella foto mi è stata regalata proprio da mia zia, che di vecchio non ha neanche l'ombra ed è un'insegnante combattiva (ultimamente un po' sciancata ma sempre tosta. Un bacio zietta!)

Allora, sapete tutti come si fa una crostata. Roba da non stare neanche qui a ripeterla. Tipo: unire i tuorli alla farina mescolando bene con le fruste fino ad ottenere un composto spumoso (si dice "che scrive"). Aggiungere il burro ammorbidito e la farina a cucchiaiate. Infine la scorza del limone. Mescolare il tutto con le mani, formare una palla e far riposare in frigo per una mezzora. Si, lo so. Il burro andrebbe lavorato freddo ma a me la frolla piace elastica (che frolla è? vabbè, a ognuno le sue contraddizioni).

Infine disporre porzioni d'impasto negli appositi stampini che non mi sono presa neanche la briga d'imburrare. Per una strana legge non scritta e mai tramandata, gli stampi piccoli non attaccano. Almeno i miei. E non sono di silicone (bleah!).

Cuocere in forno a bassa temperatura (io 140° in forno elettrico ventilato) per circa 8-10 minuti. Sfornare e riempire con la marmellata e decorare con rotolini di pasta sovrapposti. Infornare nuovamente e portare a cottura.




"Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori"
De André